IMPERIALISMO
TERZO
MONDO – IMPERRIALISMO – MOVIMENTI
DI MASSA.
Introduzione
Lo scritto che segue
- “TERZO
MONDO – IMPERRIALISMO – MOVIMENTI
DI MASSA. APPUNTI
PER UNA RIFLESSIONE”,
fu
pubblicato sul sito “Comunismo
Libertario” nel
dicembre del 2006 in una versione
ridotta dal titolo,
“IL
MUTAMENTO DI FUNZIONE DELLA QUESTIONE
NAZIONALE”.
http://www.comunismolibertario.it/Il
mutamento di funzione
.html ↑
Sul medesimo sito è ancora oggi presente un altro scritto di riferimento: “INTORNO ALLA QUESTIONE DEI PAESI ARRETRATI E DELL’’IMPERIALISMO”, al quale rimandiamo per i riferimenti generali della questione. http://www.comunismolibertario.it/Intorno alla
questione.html ↑
Se riproponiamo lo scritto, nella stesura originale e con qualche aggiornamento, è perché riteniamo che possa essere utile alla discussione in corso, laddove assistiamo a una ripresa della dimensione nazionale del socialismo in prospettive assolutamente decontestualizzate dalle dinamiche imperialistiche in atto, che vengono omesse o deformate in base alle mutevoli esigenze di matrice ideologica e politica, attraverso un processo di adattamento della prassi alla teoria che stravolge la comprensione della realtà dei fatti determinati.
Così è che le esperienze nazionali che tentano di opporsi ai processi di “globalizzazione” vengono presentate come inedite ed epocali, quando invece costituiscono le transizioni inevitabili della fase imperalistica del capitalismo, e per questo non certo scevre da importanti implicazioni e conseguenze, così come d’altronde avevano previsto i teorici del socialismo, a partire da Marx.
Non si tratta di presentare una visione “scientifica e definitiva” della fase ma, molto più realisticamente, di far emergere alcuni elementi storici e teorici di “orientamento”, in larga misura omessi nelle analisi correnti che troppo spesso replicano la tradizionale impostazione “terzomondista”, che già caratterizzò i processi di decolonizzazione negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, laddove esperienze di affrancamento dal colonialismo assunsero al ruolo di “rivoluzioni socialiste” o comunque di regimi “oggettivamente antimperialisti”.
Al riguardo il caso del Venezuela di Maduro e della Siria di Assad sono solo due degli esempi più recenti, attorno ai quali sorgono difese “a prescindere”, laddove si riesumano antiche e evidentemente mai del tutto superate categorie staliniane divenute poi “patriottiche, socialiste e nazionali”, proprio in contrapposizione all’aggressione imperialistica USA quale dato oggettivo di riferimento, ma intesa semplicisticamente come l’unica forma imperialistica corrente: una visione unilaterale, con la quale furono interpretate molte decolonizzazioni del secolo scorso e che trascura i ruoli imperialistici di altre potenze che, come la Russia e la Cina, sono invece fortemente coinvolte nella competizione per la conquista del mercato mondiale.
Non si tratta quindi di difendere nessun “socialismo bolivariano” quale bastione continentale contro l’imperialismo USA, o di condannarlo ideologicamente, e con uguale intransigenza, quale “forma statuale di dittatura mascherata da socialismo e non autogestionaria”.
E nemmeno si tratta di vagheggiare quell’uscita dall’euro che pretenderebbe di risolvere in chiave nazionale un conflitto imperialistico in quanto tale internazionalizzato, le cui contraddizioni evidenti,, e il caso del debole e diviso imperialismo europeo è un esempio eloquente al riguardo, non potranno essere risolte da un oggettivo ritorno al “sovranismo nazionale” che l’uscita dall’euro inevitabilmente comporterebbe.
Ancora una volta è necessario rifuggire la tentazione di schierarsi semplicisticamente “a favore o contro”, per iniziare invece a privilegiare l’analisi dei fenomeni, per valutarli nel contesto di un conflitto imperialistico che sempre più si caratterizza come “unitario”, laddove le componenti che si scontrano, anche con la guerra, siano esse costituite da singoli stati retti da borghesie nazionali di area continentale o da potenze che hanno già assunto una maturità imperialistica che gli consente di esercitare egemonia, costituiscono gli elementi portanti di una contesa che rimane comunque imperialistica, anche se mascherata dalle vestigia del “socialismo nazionale” o dalle forme sempre più impotenti e formalistiche della democrazia parlamentare, quali configurazioni dello sfruttamento capitalistico.
Se insistiamo sull’argomento è perché ci rendiamo conto di affrontare argomenti ritenuti noiosi, e di farlo con una terminologia della quale, in altri tempi, si è obiettivamente abusato, così come si è obiettivamente abusato delle categorie imperialistiche riferite, per lo più, al solo capitalismo USA.
Secondo queste concezioni ideologiche quella che fu l’URSS, una potenza economica forte militarmente ma debole economicamente, avrebbe costituito, in quanto “stato socialista” e quindi non capitalista, un’oggettiva alternativa all’imperialismo USA che altrimenti avrebbe dilagato quando, già in quegli anni, l’analisi della funzione sociale dell’URSS dimostrava la natura imperialistica compiuta di questa declinante potenza.
Oggi l’URSS non esiste più e al suo posto abbiamo la Federazione Russa, un sistema autenticamente capitalista che sta tentando di accrescere la sua potenza sui mercati mondiali anche attraverso l’impegno militare, come ad esempio in Siria, che è divenuto uno degli scenari strategici dello scontro tra potenze.
Ma ragionare di imperialismo, una categoria questa largamente omessa anche da molte compagne e molti compagni che fanno riferimento all’anarchismo, è importante anche per comprendere e non liquidare fenomeni rappresentati dalle varie tendenze riformistiche per definire un’opportuna tattica di classe, evitare errori ed accrescere la nostra presenza in questa società.
Infine sarà sicuramente possibile trattare argomenti quali l’imperialismo in modo meno ostile e in termini che stimolino l’interlocuzione ma, purtroppo dobbiamo convenire che, nonostante i nostri sforzi in tal senso, i risultati conseguiti sono alquanto distanti dalle necessità di semplificazione che pure rivendichiamo.
La colpa è nostra ma, cercando di semplificare i concetti schematizzandoli, abbiamo compiuto un primo passo, certi che la divulgazione di concetti indispensabili ma ostili, sia inevitabile per la comprensione del presente.
Imperialismo – Terzo mondo – Movimenti di massa.
Appunti per una riflessione.
Il mito del “terzo mondo” e il “terzomondismo”: dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Verso la metà degli anni ’50 del ‘900 i sociologi francesi Alfred Sauvy (1898 – 1990) e Georges Balandier (1920 – 2016) coniarono il termine “terzo mondo”, ispirandosi al terzo degli stati generali, la borghesia, che si riunirono in Francia nel 1789.
Questo riferimento, che sarebbe stato assunto universalmente come valido e che costituisce la base fondante del “terzomondismo”, un’ideologia composita e contraddittoria estesa dall’estrema destra fino all’estrema sinistra, è però del tutto privo di obiettività storica in quanto la borghesia fin dalla sua costituzione si caratterizzò per essere una classe con interessi comuni, mentre i paesi arretrati non sono mai stati una classe e hanno assunto, nel tempo, interessi profondamente divergenti.
La locuzione “terzo mondo”, nasce quindi nel cuore dell’Europa capitalistica, laddove con quel termine s’intese individuare specifiche categorie economiche, politiche e culturali proprie dei paesi più arretrati, in contrapposizione “all’eurocentrismo” di cui si riteneva fosse intrisa la sinistra occidentale, anche nelle sue interpretazioni rivoluzionarie.
Secondo gli ideologi terzomondisti l’imperialismo non sarebbe una delle fasi dinamiche dello sviluppo capitalistico (non necessariamente la “suprema”, né l’ultima), ma l’esclusivo e definitivo strumento di dominio del capitale per consentire ai paesi “ricchi” di sfruttare quelli “più poveri e arretrati” immiserendoli e ritardandone irreparabilmente lo sviluppo.
Quest’ultima tesi rimanda al concetto di “proletariato esterno all’Occidente” di chiara ascendenza nazionale e protofascista.
Essa si nutre dei medesimi concetti pseudomarxisti con i quali, appunto, il protofascismo prima e il fascismo successivamente, tentarono di trasformare lo scontro tra classi in scontro tra nazioni, purtroppo con risultati di rilievo.
Inoltre questa tesi conduce a riunire tutte le classi di una medesima nazione in un unico insieme omogeneo, negando che nei paesi arretrati possano esistere classi sociali indigene in grado di opprimere e sfruttare altre classi e si risolve, conseguentemente, nel concetto mussoliniano di “nazione proletaria”.
Il terzomondismo trascura che il processo di internazionalizzazione del capitale, già chiaramente individuato da Marx e dagli altri teorici del socialismo, accompagna il modello di produzione capitalistico fin dalle sue origini più remote, e che tale processo ha redistribuito quote di profitti anche nei paesi arretrati, profitti che sono stati accumulati dalle borghesie indigene rafforzatesi proprio tramite l’imperialismo e a spese del proletariato dei rispettivi paesi, secondo uno schema di espansione tipicamente capitalistico.
Conseguentemente gli ideologi terzomondisti ignorano che nei paesi arretrati non potranno realizzarsi le medesime transizioni che caratterizzarono il capitalismo europeo: ciò non è possibile poiché la fase della libera concorrenza appartiene al passato, e la fase imperialistica, nel suo violento affermarsi, ha assimilato le borghesie nazionali trasformandole in sfruttatrici delle rispettive classi subalterne, e laddove esse continuano a conservare un qualche contenuto progressista sono assolutamente incapaci di svolgere il ruolo storicamente svolto dalla borghesia inglese, francese e nordamericana.
Torniamo a parlare di “imperialismo”
“L’esportazione di capitale ha accelerato… il processo di trasformazione di tutte le antiche strutture sociali di diffusione del capitalismo su tutta la superficie del globo. Lo sviluppo capitalistico non avrebbe certo potuto prodursi in ogni singolo paese per germinazione spontanea. Assieme al capitale vennero però importati anche il modo di produzione capitalistico con le condizioni di sfruttamento e addirittura al grado di sviluppo raggiunto nei paesi più progrediti. Oggi per impiantare una nuova industria non occorre farla passare, filogeneticamente per tutte le fasi dello sviluppo storico industriale, a partire dall’artigianato fino ad arrivare, attraverso tecniche sempre più aggiornate, ai moderni giganteschi esercizi; la si fonda senz’altro come impresa ad alto livello capitalistico. Allo stesso modo il capitalismo che viene importato in un paese vergine vi arriva nello stadio che ha ormai raggiunto nei paesi più sviluppati e può quindi svilupparvi la sua azione rivoluzionatrice con maggiore intensità e in minor tempo di quanto non abbia fatto in Inghilterra e in Olanda”. (1)
Giova ricordare che l’opera da cui è tratta questa citazione, “Il capitale finanziario”, scritta dal socialdemocratico austriaco Rudolf Hilfeldring e pubblicata nel 1910, risultava “già composta nella sua fase sostanziale” fin dal 1905, ben undici anni prima del più famoso ma molto meno rigoroso saggio (popolare) del marxista rivoluzionario Lenin – “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” e appena tre anni dopo al fondamentale saggio di John A. Hobson “L’imperialismo” (Hobson non era marxista).
“La storia avanza con il lato cattivo”, e le fasi di espansione del capitalismo, concretatesi nel colonialismo prima e nell’imperialismo poi, hanno imposto costi umani enormi ai popoli dominati: ma questi costi non sono stati superiori a quelli subiti dal proletariato europeo all’epoca della rivoluzione industriale.
In questo contesto storico, indagando cioè all’interno dei meccanismi del sistema di produzione capitalistico Marx individua definitivamente due classi che divengono nel tempo molto articolate e mutevoli, la borghesia e il proletariato, caratterizzate da interessi materiali e storici risultanti che rimangono comunque antagonisti e a tutt’oggi non esistono, nel mondo, altre forze sociali capaci di muoversi al di fuori di questa polarità.
Ogni analisi che voglia cogliere le reali condizioni che si determinano in aree e fasi diverse per storia, rapporti economici, stratificazione sociale, cultura, usi e costumi, deve essere necessariamente ricondotta a questa polarità classista, pena l’incapacità di comprendere la storia, il suo sviluppo ed il suo divenire.
Il capitalismo nel corso della sua espansione anziché livellare le fasi di sviluppo proprie delle varie aree le ha diversificate ulteriormente: dalle aree ricchissime si giunge a quelle poverissime e senza futuro che, comunque, non sono estranee al processo di produzione capitalistico.
Da questo punto di vista il sottosviluppo costituisce parte integrante dei processi di internazionalizzazione del capitale le cui dinamiche fanno sì che il capitalismo entri in relazione con realtà anche molto più arretrate laddove si realizzeranno i rapporti economici e sociali capitalistici che saranno, ovviamente, condizionati da tale arretratezza.
Da questo punto di vista la suddetta citazione di Hilfeldring non risulta oggi meno valida di quando fu formulata: nelle aree povere ed arretrate sarà più complesso realizzare investimenti capitalistici per l’assenza delle necessarie infrastrutture economiche ed istituzionali, e la penetrazione imperialistica avverrà non in modo sistematico e pianificato, cioè contraddittorio, ma non per questo meno violento e sanguinoso (depredazione delle materie prime, delle risorse ecc..).
Il declino del concetto di nazione
L’esportazione di capitale e con essa l’intera dinamica imperialistica non ha creato uno sviluppo omogeneo tra le varie aree del pianeta in virtù dei condizionamenti propri delle caratteristiche geografiche, storiche, economiche, sociali, istituzionali e culturali delle aree dove esso è andato affermandosi.
Si è quindi determinato uno sviluppo diseguale nell’ambito della competizione imperialistica mondiale, laddove il ruolo tradizionale di nazione si è progressivamente indebolito unitamente al concetto medesimo di “borghesia nazionale”.
Con l’avvento e l’affermarsi dell’imperialismo il mondo è cambiato: l’era che vide sorgere i capitalismi nazionali, l’era del colonialismo, del neocolonialismo, delle rivoluzioni nazionali e della decolonizzazione appartiene ormai al passato e non si potrà ripetere, anche perché i paesi arretrati non hanno più paesi che possano essere colonizzati.
Esiste una fondamentale differenza tra “il nazionalismo della nazione oppressa e il nazionalismo della nazione che opprime, il nazionalismo di una grande nazione e il nazionalismo di una piccola nazione”, ma oggi, in una fase accresciuta della competizione imperialistica, laddove nuovi soggetti (Cina, India, Europa, Russia, Brasile), si affacciano allo scenario mondiale e ne sconvolgono gli equilibri secolari, i margini di manovra del nazionalismo progressista appaiono estremamente limitati se non inconsistenti.
Nonostante che nel corso della storia i rivoluzionari abbiano giustamente e incondizionatamente sostenuto le lotte di liberazione nazionale, questo necessario sostegno oggi non è più significativo come un tempo, e dovrà essere affiancato dalla consapevolezza che il nazionalismo, sia pure progressista, una volta realizzata la propria indipendenza militare e non avendo altra scelta se non quella di socializzare la povertà sprofondando nella stagnazione economica, non potrà che involvere verso forme dittatoriali o verso la subordinazione a una delle potenze imperialiste al fine di rilanciare l’accumulazione primitiva, trovandosi ancora una volta subordinato all’assetto imperialistico vigente.
Questa realtà drammatica ha condizionato anche chi ha effettuato le rivoluzioni del passato: mantenersi fedeli alle proprie condizioni per essere sconfitti dalla realtà che non si modifica come è avvenuto per Lenin, Trotsky e Guevara e per altre vie a numerose esperienze dell’anarchismo, o scendere a patti con la realtà volgendosi alla realizzazione del capitalismo di stato tramite la dittatura tradendo la rivoluzione, così come è avvenuto nei casi di Stalin, di Mao e di Castro e, in tempi più recenti, di Chavez e Maduro.
Oppressi e oppressori
La storia dimostra, in termini più generali, che le nazioni e i popoli oppressi una volta liberatesi dal dominio di altri popoli e nazioni, divengono, o possono diventare a loro volta, nazioni e popoli opprimenti.
Gli Stati Uniti che furono il primo grande paese a liberarsi dal dominio coloniale divennero a loro volta una nazione colonizzatrice. Gli ebrei vittime secolari dell’odio razzista e delle persecuzioni fino alla tragedia dell’olocausto, hanno prodotto il sionismo il quale, una volta realizzato il suo stato nazionale, si è trasformato in oppressore del popolo palestinese: d’altro canto le varie compagini nazionalistiche palestinesi e tutti i nemici giurati di Israele predicano la distruzione dello stato e del popolo israeliano per ragioni nazionali, raziali e religiose.
In realtà qualunque teoria nazionale, dalla più moderata a quella più radicale, così come dal populismo più demagogico, fino alle esperienze più avanzate e democratiche quali quella Zapatista in Chapas, hanno in comune l’assenza di universalità, sia perché la rifiutano a priori (nazionalismo, peronismo, populismo,) sia perché non possono esprimerla e rappresentarla per condizioni oggettive di arretratezza. (indipendentismo, guevarismo, zapatismo).
Ciò che i paesi arretrati dovrebbero esprimere è la transizione al comunismo, ma ciò che concretamente possono esprimere è la stagnazione economica e la crisi del sottosviluppo oppure, in alternativa a questo tragico scenario, l’orizzonte oppressivo della dittatura quale unico mezzo per conferire alle deboli borghesie di questi paesi la possibilità di una modesta accumulazione, che implica lo sfruttamento delle rispettive classi subalterne per un “interesse nazionale” di affrancamento dall’imperialismo che può giungere allo scontro aperto con esso, fino alla subordinazione ad una nuova potenza imperialistica che intende così accrescere il proprio ruolo nell’area di riferimento.
Il capitalismo nel corso del suo sviluppo si è internazionalizzato creando un mercato mondiale e dando luogo, per la prima volta nel corso dell’umanità, ad un processo storico universale: in un simile processo il proletariato è divenuto l’unica classe capace di raccogliere per intero questa universalità e di trasmettere un processo emancipatore non di un’unica classe, fosse anche il proletariato medesimo, ma di tutta l’umanità.
Il proletariato è l’unica entità sociale universale capace di schierarsi contro il particolarismo della borghesia che per difendere i suoi interessi di classe non generale ha rinnegato gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza che animarono in Francia la grande rivoluzione borghese del 1789.
In un mondo interamente dominato dal capitalismo, laddove i paesi più arretrati sopportano il sanguinoso scenario del conflitto imperialistico tra potenze, le lotte di liberazione nazionale non hanno più alcuna capacità di trasformarsi in processi di emancipazione del proletariato dei paesi arretrati: in un simile contesto” la rivoluzione a tappe” che consta dell’appoggio tattico alle borghesie nazionali assume la fisionomia di una vera e propria utopia reazionaria, poiché i processi di trasformazione sociale e di concentrazione del proletariato nei paesi in via di sviluppo, assieme alle rotte di migrazione della forza lavoro sono divenute prioritarie rispetto alla questione nazionale.
A questo punto la domanda, frequente, che alcuni compagni pongono e cioè - “cosa dovrebbero fare i rivoluzionari, e tra questi gli anarchici in Irak, in Palestina, o in Siria o in Venezuela non ha senso alcuno, sia perché è intrisa di umori moralistici, sia perché non è rivolta alla stratificazione sociale e di classe propria di quelle aree nel contesto della competizione imperialistica internazionale sconvolta, aspetto questo fondamentale, dal comparire di nuovi importanti e contraddittori soggetti, Cina, India, Europa, Brasile, Russia.
Un inedito assetto mondiale
Questo progressivo sconvolgimento di un assetto storico secolare, costituitosi nel 1500 con il decollo della potenza europea, con il rifluire dell’Asia e con il profilarsi all’orizzonte di quella che sarebbe poi divenuta la principale potenza imperialistica mondiale, gli USA, origina oggi un assetto mondiale nuovo ed aperto a scenari in larga parte inediti, caratterizzato dal progressivo declino dell’egemonia USA, dal progressivo consolidamento di un polo imperialistico europeo (un processo questo certamente contraddittorio – l’Europa esprime forze che faticano a stare insieme ma che devono, comunque, fare sistema in quanto sono spinte all’unità dalla competizione imperialistica sui mercati internazionali), dal rapido sviluppo della Cina verso un ruolo di grande potenza imperialistica, dallo sviluppo capitalistico dell’India e da quello continentale del Brasile e dal ruolo della Russia. E’ questo, ad esempio, il contesto mondiale in cui collocare le guerre e i conflitti in Iraq e in Siria e sarebbe riduttivo ritenere che tali conflitti siano combattuti solo per il petrolio e per le altre fonti di energia quando, invece, essi hanno assunto e assumono anche un ruolo strategico: un monito lanciato dagli USA nei confronti dell’Europa, della Russia e della Cina, non ostante che questo ruolo debba fare i conti con gli assetti politici e istituzionali obiettivamente variabili e contraddittori che assumono le potenze imperialistiche, spesso soggette a spinte centripete al fine di difendere interessi particolari.
Ora, noi che risiediamo in pace non dovremmo sprecarla questa nostra condizione di oggettivo privilegio.
Dovremmo smetterla di ragionare come se fossimo tutti i giorni sotto i bombardamenti.
Avendo la fortuna di risiedere lontano dalle situazioni di pericolo dobbiamo invece analizzare freddamente ciò che è accaduto ieri per capire ciò che sta accedendo oggi, evitando di fare finta che la contrapposizione di classe, temporaneamente sospesa o modificata in alcune aree o nazioni dall’andamento delle fasi storiche e dal dramma della guerra imperialistica, cessi di esercitare il suo ruolo polarizzante.
La mistificazione fondamentalistica e nazionalistica, così come la menzogna imperialista sono complementari, allignano e si sviluppino proprio in assenza di analisi corrette: nel fuoco della battaglia e nella distruzione della guerra non c’è spazio per disquisizioni sociologiche.
Il fatto è che ognuno deve svolgere il ruolo che le contingenze storiche determinano, per cui appare immorale sul piano etico e gravissimo su quello della coerenza rivoluzionaria, che chi se ne sta comodamente seduto al computer finga di giocare alla guerra e si atteggi quando a guerrigliero, quando ad apostolo se non, addirittura a megafono dei conflitti sociali nei paesi arretrati, quando a turista della rivoluzione dispensando consigli su come, dove e quando combattere il nemico israeliano o americano che sia, e se questa opposizione debba essere violenta sino alla strage indiscriminata di civili, o se fermarsi ai soli militari, o se aborrita la suddetta si debba procedere a contrastare l’occupazione militare per vie pacifiche diventando pacifisti integrali e testimoniali senza se e senza ma; se sia corretto “comandare ubbidendo” dalle selve alle metropoli imperialistiche, o/e appoggiare o contrastare la resistenza irakena, palestinese o siriana tracciando distinguo tra bomba e bomba, uccisione e uccisione, massacro e massacro, tra sangue e sangue.
A parte la filantropia che ha una sua dignità ma non configura alcun progresso sul piano rivoluzionario, il resto sono tutte chiacchiere.
La guerra è una dinamica oggettiva che si beffa del massimalismo e del soggettivismo e di ogni altra buona intenzione, di ogni etica e di ogni dolore per imporre leggi proprie, oggettive, dolorose e in eludibili.
Nei paesi arretrati ciò che oggi manca è, tra le molte cose importanti, il ruolo della minoranza agente volta a selezionare i quadri rivoluzionari idonei ad articolare un chiaro progetto internazionalista, per saldare gli interessi del proletariato dei paesi arretrati con quelli identici del proletariato di tutto il mondo, con la significativa ma circoscritta eccezione del ruolo e dell’azione del PKK in Rojava.
I movimenti di massa
In molti ambiti della sinistra e nel movimento anarchico si è andata progressivamente consolidando la convinzione secondo la quale molte delle argomentazioni suddette sarebbero in realtà “feticismi” i quali, ispirati da una ingiustificata mistica “della classe operaia”, sottovaluterebbero il ruolo dei movimenti di massa come, ad esempio, il movimento pacifista e il movimento contro la globalizzazione.
In realtà la questione è mal posta: i sopradetti argomenti sono il prodotto di una attenta valutazione e non di una sciatta sottovalutazione intorno al ruolo dei movimenti di massa, per come essi nascono, crescono e si integrano nelle varie fasi dello sviluppo capitalistico, e sono proprio coloro che di questi movimenti tracciano l’apologia a sopravvalutare pericolosamente il loro ruolo e la loro funzione.
I movimenti di massa sono il prodotto eterogeneo delle contraddizioni esistenti nelle metropoli imperialistiche: ma cosa significa esattamente questo concetto astruso o banale, a seconda dei gusti, ma solo per chi condivide la definizione secondo la quale il movimento per la pace sarebbe la “seconda potenza mondiale”?
Vuol dire, in realtà, che alla stregua del movimento operaio anche quello per la pace, per esempio, (ma sarebbe lecito riferirsi anche a quello che è stato il movimento femminista, o a ciò che è stato ed è il movimento ambientalista, a quello studentesco o a quello cristiano, del volontariato ecc..) nasce in ambiti capitalistici e che costituisce anch’esso una contraddizione del capitalismo, ma il concetto individua soprattutto la fondamentale differenza tra il movimento operaio e sindacale e gli altri movimenti di massa due movimenti: i secondi sono transeunti mentre il primo non lo è.
Il movimento per la pace sorge e si afferma nelle realtà “sazie” dei paesi capitalistici più sviluppati, su bisogni e consapevolezze etiche e culturali che si saldano a fasi contingenti del ciclo capitalistico, mentre il movimento operaio nasce e si sviluppa nel corso della “rivoluzione industriale” dalle viscere del sistema capitalistico quale sua contraddizione ineliminabile, forgiandosi attraverso vittorie e sconfitte proprio nell’ambito del processo di espansione del capitalismo medesimo, fino all’attuale fase imperialistica che segna un forte incremento quantitativo del proletariato mondiale.
Se i movimenti di massa sorgono, sono sorti e sorgeranno nei paesi a capitalismo maturo e sono destinati per le loro medesime caratteristiche transitorie a integrarsi nel ciclo capitalistico, in maniera rapida, talvolta assai più rapida di quanto sia accaduto e accada al movimento operaio, ciò non significa negare che essi siano, siano stati e saranno, portatori di esperienze costruttive che devono inevitabilmente essere rivendicate dalla minoranza agente e acquisite dall’intero movimento di classe.
Ciò perché non devono essere sottovalutati, o peggio ancora disprezzati, i contributi provenienti da ambiti interclassisti (nel significato qualificativo e non dispregiativo del termine): l’intera esperienza della borghesia in formazione e dei suoi antesignani, ha storicamente fornito un fondamentale contributo all’evoluzione del pensiero scientifico e, quindi, alla teoria e alla prassi rivoluzionaria, anche di parte anarchica. Se da una parte le teorie rivoluzionarie e con esse l’anarchismo, nascono e si sviluppano dalla lotta tra le classi, è indiscutibilmente vero che la teoria rivoluzionaria si è consolidata per il sistematico lavoro teorico di donne e uomini che nel corso di un secolo hanno estratto dall’ammasso dell’evoluzione teorica borghese e preborghese quei presupposti dai quali e con i quali hanno iniziato a costruire e ricostruire i modelli teorici e le strategie politiche, gli strumenti scientifici di analisi che, come il materialismo storico, si sono dimostrati capaci di interpretare il mondo in movimento nella sua configurazione storica capitalistica e, quindi, reale: non solo per comprenderla, ma per superarla. Il fatto che queste donne e questi uomini fossero, pressoché tutti, di origine borghese è un’altra delle fondamentali contraddizioni del capitalismo che non fornisce solo il materiale umano ma anche le menti capaci di definire la teoria, la strategia, i programmi e gli strumenti organizzativi per il suo superamento. (2)
Conseguentemente i rivoluzionari devono sviluppare una tattica d’intervento in ogni contraddizione del capitalismo acquisendo la capacità di muoversi, intervenire e distinguersi in ogni ambito laddove vi sia spazio per l’azione politica; ed è francamente difficile collocare fuori dal piano tattico questa indiscutibile necessità rimanendo coerenti ad una impostazione rivoluzionaria.
Si consideri, ad esempio le mobilitazioni contro la TAV o contro il ponte sullo Stretto di Messina: lotte importanti, da sostenere sicuramente, ma in esse il ruolo dell’organizzazione politica comunista libertaria non dovrebbe ridursi solo a quello di “guidare” le mobilitazioni, ma soprattutto a spiegare con chiarezza e tenacia le motivazioni che stanno alla base della scelta relativa alle grandi infrastrutture, come esse si collocano nell’ambito dei processi capitalistici in atto, gli obiettivi verso i quali esse muovono, quali sono i settori della borghesia capitalistica che più di altri hanno interesse a queste scelte ecc.. Inoltre l’organizzazione politica comunista libertaria dovrà lasciare ad altri il compito di apologizzare i movimenti e i loro ruoli, evitando di fare il megafono di tali movimenti e riducendosi a cavalcare quando la tigre del pacifismo, quando quella dell’ambientalismo, ma promuovere in ogni contraddizione il primato dell’analisi scientifica dei fenomeni, chiarire che ogni movimento di massa, ogni lotta, ha con se implicazioni progressive e regressive e che queste ultime possono facilmente prendere il sopravvento se manca una contestualizzazione (la situazione reale nella quale tali lotte si collocano) e un preciso obiettivo generale di classe.
Questa funzione chiarificatrice, condotta in modo determinato e visibile, non realizza solo la necessaria propaganda politica che collega l’azione dell’organizzazione alla realtà sociale, ma rafforza soprattutto la preparazione dei militanti comunisti libertari e il loro ruolo in quei fronti di lotta così variegati e complessi, laddove più che da altre parti alligna, il corporativismo, il particolarismo e il localismo, così come un pericoloso massimalismo. Saranno proprio questi militanti, che impegnati nell’organizzazione sindacale, dovranno sostenere direttamente queste lotte e questi movimenti di opposizione agli obiettivi particolari e generali del capitalismo, con le consapevolezze maturate all’interno dell’organizzazione politica, coinvolgendo su quelle posizioni interi settori sindacali schierandoli a sostegno di quelle lotte.
Non è realistico ritenere che l’organizzazione politica partecipi alla marcia della pace di Assisi efficacemente mutuando contenuti internazionalisti, ma che i militanti comunisti libertari si impegnino a coinvolgere in quella scadenza e sulle loro parole d’ordine internazionaliste i settori studenteschi, giovanili e sindacali nei quali intervengono: ebbene ciò è francamente indispensabile.
La realtà, anche la più diversa dalla nostra non deve spaventare mai poiché, semmai, è uno stimolo all’azione politica: da qualche parte Marx ebbe a scrivere un concetto che poi sarebbe stato più volte ripreso dagli epigoni, anche rivoluzionari, e che suona più o meno così: “nella vita si è spesso costretti a dire e fare cose nelle quali non si crede. Ciò ha senso solo a due condizioni: “che noi non ci si creda e che non ci si faccia credere gli altri”.
In ogni paese dovranno svilupparsi ampi processi unitari partendo dagli interessi materiali comuni alle componenti sociali che costituiscono il proletariato contro le rispettive borghesie capitalistiche.
Oggi non siamo in una fase rivoluzionaria dato che il processo rivoluzionario per svilupparsi necessita del combinarsi delle condizioni oggettive che, come scrivevano i compagni dei GAAP nel 1950 mancavano all’ora e che, anche oggi, continuano a mancare: “situazione di crisi, classi in movimento, minoranza agente”.
Ciò che si sta verificando nell’ambito della contesa imperialistica mondiale tende verso “una nuova situazione di crisi”, situazione che è destinata ad aggravarsi e a produrre contraddizioni asprissime ed inedite nell’arco della prossima generazione. Le “classi in movimento”, sono realmente presenti nella costituzione di un nuovo assetto imperialistico mondiale che vede la forza lavoro proveniente dalle aree più povere concentrarsi dentro e fuori ai paesi di origine e migrare verso le metropoli imperialistiche sconvolgendone gli assetti e creando, contemporaneamente, nuovissime opportunità di lotta e di organizzazione. E’questo il fenomeno epocale dirompente laddove si collocano le contraddizioni del sistema capitalistico destinate a impostare scenari imprevedibili.
Lucca, aprile 2017 Giulio Angeli
(1) (Rudolf. Hilfeldring: “Il capitale finanziario” - Edizioni Feltrinelli – Milano 1976, pag. 422 – 423).
(2) Chi disprezza oggi il movimento per la pace perché non annovererebbe la classe operaia (cosa per altro non del tutto vera) o perché lascerebbe troppo spazio alle parrocchie (cosa che, in ogni caso, dovrebbe essere verificata e approfondita) oppure e più in generale perché non esprimerebbe contenuti di classe, sono gli stessi inconcludenti che ieri disprezzavano il movimento femminista solo perché comprendeva, in larga misura, le giovani donne di origine borghese, i loro bisogni e le loro contraddizioni. Chi si riduce a queste paralizzanti congetture non ha compreso né il capitalismo né la sua dinamicità e ritiene che la borghesia sia formata solo da crassi affaristi che hanno il portafogli al posto del cervello e del cuore. Se l’estrazione del profitto e la sua accumulazione costituiscono il processo ineludibile per la sopravvivenza del capitalismo, c’è da dire che essa non sarebbe stata possibile se la borghesia non avesse dato battaglia politica all’interno delle contraddizioni da essa stessa create, contro le sue medesime componenti e in tutti gli ambiti della vita reale: una grande battaglia culturale, vinta quasi sempre, per altro. La borghesia ha così formato i propri quadri, gli strumenti adeguati, le strategie e le tattiche opportune per perseguire progressivamente la propria egemonia culturale sull’intera società, e questa egemonia non si è affermata solo con la guerra e la violenza (condizioni indispensabili, ineliminabili ma insufficienti) ma anche con la politica che è riuscita a annichilire, stravolgere ed integrare quelle spinte antiborghesi tipiche dei grandi movimenti di massa e dello stesso proletariato, che hanno mosso milioni di giovani dal 1968 ad oggi, per parlare di questi ultimi cinquanta anni. E se tali movimenti sono stati integrati nel sistema capitalistico (ciò vale pure per il movimento operaio anche se in misura diversa) risolvendosi in esso e fornendo alla borghesia medesima i quadri da inserire nel suo apparato generale di controllo che dall’economia arriva sino alla cultura transitando per la politica, il sindacalismo, le istituzioni e molto altro, ciò significa solo che quei movimenti comprendevano materiale sociale interessante che per l’insipienza dei rivoluzionari è passato armi e bagagli al nemico di classe, secondo una purtroppo collaudatissima tradizione storica. Esempio: si dice che i movimenti religiosi siano reazionari. Ciò è vero nel senso del loro divenire risultante (le varie forze che li costituiscono si compongono in una risultante che non tira nel senso della rivoluzione ma della reazione) ma in quanto movimenti di massa sono realtà contraddittorie capaci di sorprendere come l’ebraismo, che produsse non solo il sionismo ma ancher le menti migliori del socialismo nelle sue espressioni rivoluzionarie, anarchismo compreso. L’attenzione alle contraddizioni del capitalismo deve quindi essere rigorosa e senza pregiudizi per dei rivoluzionari ma, con il medesimo rigore, essi devono parimenti distinguere tra contraddizione e contraddizione, evitando di confondere cause ed effetti.
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